Torna al centro del dibattito pubblico la tassa sugli smartphone, un’imposta che grava sull’acquisto degli smartphone.
L’allarme è scattato dopo la recente proposta del Ministero della Cultura di aumentare del 40% l’equo compenso per copia privata, una misura che incide direttamente sul prezzo finale di questi prodotti e che ha sollevato proteste da parte delle associazioni di categoria.
La cosiddetta tassa sull’equo compenso rappresenta un contributo obbligatorio introdotto in Italia nel 1992 e riformato nel 2003, con tariffe basate sulla capacità di memoria dei dispositivi.
Cos’è e come funziona la tassa sugli smartphone
Essa si applica su una vasta gamma di prodotti tecnologici: dallo smartphone al computer, fino a hard disk, chiavette USB, tablet, lettori MP3 e supporti come CD e DVD.

L’obiettivo di questa imposta è quello di remunerare gli autori e l’industria culturale per la copia privata di contenuti digitali, compensando così l’eventuale perdita derivante dalla duplicazione non autorizzata di opere protette da diritto d’autore.
Negli ultimi anni, la tassa si è estesa anche ai servizi di cloud storage, come Google Drive e altri sistemi di archiviazione online, che consentono la condivisione e la sincronizzazione di file tra dispositivi diversi.
Questa novità rappresenta una delle cause principali dell’incremento proposto dal Ministero della Cultura, che mira a includere nel calcolo anche le nuove forme di archiviazione digitale.
L’aumento del 40% sull’equo compenso non è solo una questione di numeri, ma rischia di avere ripercussioni significative sul mercato italiano dell’elettronica di consumo.
Le associazioni di categoria, tra cui l’ASMI (Associazione dei Produttori di Supporti e Sistemi Multimediali), hanno espresso forte preoccupazione per l’ipotesi di incremento, sottolineando che un rincaro di questa entità potrebbe far lievitare i prezzi finali dei dispositivi e penalizzare soprattutto i consumatori italiani.
Un confronto con altri Stati europei mostra inoltre come l’Italia applichi tariffe molto più elevate rispetto ai Paesi vicini. Ad esempio, per una chiavetta USB da 256 GB, in Italia si paga un contributo di 8,76 euro, mentre in Francia la tariffa è di 4 euro, in Spagna appena 24 centesimi, in Germania 30 centesimi e in Belgio 1 euro.
Le differenze si ampliano ulteriormente nel caso degli hard disk esterni: in Italia la tassa è di 20 euro, contro i 6,45 euro in Spagna, 4,44 euro in Germania e meno di un euro nei Paesi Bassi.
Queste disparità generano un mercato disomogeneo e incentivi concreti all’acquisto di dispositivi dall’estero, soprattutto tramite e-commerce con sede fuori dall’Italia, dove il pagamento della tassa non è previsto o è significativamente più basso.
Questo fenomeno di “shopping digitale” potrebbe quindi aggravare ulteriormente la crisi del mercato interno, danneggiando i venditori italiani che devono fare i conti con costi più elevati.
L’aumento della tassa proposta dal Ministero prevede anche l’inclusione dei dispositivi rigenerati – i cosiddetti prodotti “usati” – nel calcolo dell’equo compenso. Ciò significa che su uno stesso dispositivo potrebbe essere dovuta la tassa più di una volta, creando ulteriore confusione e possibili ingiustizie per i consumatori.
L’ASMI ha fatto appello affinché le tariffe vengano ridotte anziché aumentate, evidenziando come un incremento potrebbe non solo scoraggiare l’acquisto di nuovi dispositivi, ma favorire la circolazione di dispositivi non conformi o acquistati all’estero senza il pagamento del contributo, con conseguenze negative per l’intero comparto tecnologico italiano.
Le associazioni di categoria chiedono quindi un intervento più equilibrato che tenga conto delle dinamiche del mercato globale e delle esigenze dei consumatori, evitando di appesantire ulteriormente il costo dei dispositivi digitali con imposte che rischiano di essere controproducenti.