La recente sentenza della Corte di Cassazione ha rappresentato una vera e propria svolta nella tutela dei diritti successori. Ecco le novità
Fino ad oggi, chi si vedeva leso nel proprio diritto alla “quota legittima” doveva affrontare un processo complesso, in cui era necessario dimostrare con certezza assoluta il danno subito per poter avviare una causa.
La nuova pronuncia, invece, ha semplificato notevolmente questo processo, aprendo la strada a una maggiore equità e accessibilità per chi si sente danneggiato dalle disposizioni testamentarie.
Il conflitto legato all’eredità è un’esperienza che molti conoscono bene. In particolare, dopo la morte di un genitore, non è raro scoprire che una parte significativa del patrimonio è stata destinata a un solo figlio, lasciando gli altri con una quota irrisoria o nulla. Questo scenario è ancora più doloroso quando le donazioni avvengono in vita, privilegiando uno dei figli, magari quello considerato “prediletto”. Tuttavia, la legge italiana tutela in modo chiaro e inequivocabile i diritti degli eredi legittimi, ossia coniuge, figli e ascendenti, attraverso la “quota di legittima”, una parte dell’eredità che non può essere intaccata neanche da testamenti o donazioni effettuate dal defunto.
Il Codice civile prevede l’azione di riduzione, disciplinata dall’art. 553, che permette agli eredi legittimi di richiedere al tribunale la reintegrazione della propria quota nel caso in cui questa venga violata. Tuttavia, fino alla recente sentenza, l’accesso alla giustizia era ostacolato da un requisito estremamente rigido: per avviare la causa, era necessario dimostrare con precisione il danno subito, cosa che, in molti casi, risultava impossibile senza avere una conoscenza approfondita dell’intero patrimonio del defunto.
La rivoluzione della Cassazione: la prova verosimile
La sentenza n. 20954 del 23 luglio 2025 ha cambiato radicalmente questa situazione. La Corte ha stabilito che per iniziare un’azione di riduzione non è più necessario fornire una prova certa e completa del danno subito. È sufficiente presentare una ricostruzione plausibile e verosimile della lesione subita, anche senza avere perizie dettagliate o bilanci patrimoniali completi.

Nel caso concreto, un uomo aveva lasciato quasi tutto il suo patrimonio a un solo figlio, mentre gli altri due figli e la moglie erano stati esclusi. I figli esclusi avevano fatto causa per rivendicare la loro quota di legittima, ma il tribunale aveva inizialmente respinto la domanda, poiché non erano stati forniti calcoli precisi sulla consistenza dell’eredità. Tuttavia, la Cassazione ha ribaltato questa decisione, stabilendo che era sufficiente la dimostrazione di una sproporzione evidente tra le donazioni fatte al figlio privilegiato e la quota rimasta agli altri. Questo ha reso “verosimile” la lesione della quota legittima, permettendo l’avvio del processo.
Questa decisione ha un’importante valenza sociale. Gli eredi esclusi spesso sono quelli meno informati sulla situazione patrimoniale del defunto. Potrebbero essere lontani o allontanati per anni, senza avere accesso a documenti vitali come conti bancari, contratti o atti notarili. Chiedere loro di produrre una documentazione completa e perfetta all’inizio del processo era, quindi, un onere ingiusto e irrealistico.
La Cassazione ha chiarito che il processo civile deve servire a ricostruire la situazione patrimoniale del defunto, attraverso una fase istruttoria che includa l’acquisizione di documenti, testimonianze e, se necessario, perizie tecniche. In questo modo, l’accesso alla giustizia è garantito anche a chi non dispone di prove complete fin dall’inizio, ma ha comunque elementi concreti per dimostrare che la propria quota di legittima è stata violata.