Pensioni rivoluzionate, tutte le novità: cosa significa davvero la flessibilità e come cancella la legge Fornero

L’introduzione di questa nuova flessibilità mira a costruire un sistema pensionistico più equo e sostenibile.

Il dibattito sulla riforma delle pensioni in Italia torna al centro dell’attenzione, con nuove proposte che puntano a superare definitivamente la storica legge Fornero.

A oltre un decennio dall’introduzione della riforma che ha ridefinito i criteri di pensionamento, cresce la richiesta di una maggiore flessibilità per consentire ai lavoratori di scegliere con più autonomia la data di uscita dal lavoro.

Flessibilità pensionistica: cosa significa realmente?

La flessibilità nel sistema pensionistico indica la possibilità di modulare i requisiti di accesso alla pensione, combinando età anagrafica e anni di contributi versati, senza vincoli rigidi imposti da soglie fisse.

Tale approccio consente, ad esempio, di compensare un’età più avanzata con un minor numero di anni contributivi, o viceversa, offrendo una libertà di scelta che il sistema attuale, basato su quote prestabilite, non garantisce.

Le misure finora adottate — come la Quota 100, la Quota 102 e la Quota 103 — mostrano infatti tutti i limiti della rigidità attuale: per accedere alla pensione è necessario soddisfare sia un’età minima sia un numero fisso di anni di contributi, senza margini di flessibilità.

Un caso emblematico è quello di chi ha 61 anni con 42 di contributi, ma non può andare in pensione perché la somma non raggiunge la quota 103, evidenziando l’incoerenza delle soglie fisse.

Dalla legge Fornero alle proposte di riforma attuali

La legge Fornero, entrata in vigore nel 2012 sotto il governo Monti, ha introdotto criteri rigidi per il pensionamento, con un innalzamento dell’età pensionabile e requisiti contributivi stringenti per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale. Da allora, i governi successivi hanno provato a correggere o mitigare l’impatto della riforma con misure temporanee e poco strutturali.

Oggi, la necessità di mantenere l’equilibrio dei conti pubblici spinge ancora verso un aumento graduale dell’età pensionabile, ma allo stesso tempo cresce la pressione sindacale per introdurre strumenti che garantiscano una maggiore flessibilità in uscita.

La CISL, tra le sigle sindacali più rappresentative, ha recentemente sollecitato il governo ad aprire un tavolo di confronto per studiare soluzioni che rispondano alle esigenze dei lavoratori penalizzati da norme troppo rigide.

Penalizzazioni e incentivi per una flessibilità sostenibile

Le proposte sindacali più diffuse prevedono la possibilità di andare in pensione a partire da 62 anni con almeno 30-35 anni di contributi, accompagnate da una riduzione moderata e proporzionale dell’assegno pensionistico.

L’idea è di applicare una penalizzazione contenuta, ad esempio dell’1% per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile ordinaria, evitando così un drastico calo dell’importo.

Parallelamente, si potrebbero incentivare i lavoratori che scelgono di rimanere attivi più a lungo, attraverso bonus o sgravi contributivi. Strumenti come il bonus Maroni e gli incentivi allo slittamento dell’uscita dal lavoro rappresentano modelli da replicare in un sistema ibrido, che alterni penalizzazioni leggere a premi economici, garantendo così una maggiore libertà di scelta senza gravare eccessivamente sulle casse pubbliche.

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