Pensioni: ancora una volta è la Corte Costituzionale a farsi protagonista di cambiamenti concreti. Ecco la pronuncia
Mentre il dibattito politico sulle pensioni minime fatica a produrre risultati tangibili, è infatti la Consulta ad aver introdotto novità significative attraverso le sue sentenze.
Con la sentenza n. 94 del 2025, la Corte ha affrontato un nodo irrisolto del sistema pensionistico italiano: la disparità di trattamento tra chi riceve una pensione calcolata con il metodo contributivo puro e chi invece rientra nel sistema retributivo o misto.
Il fulcro del problema è cronologico: chi ha iniziato a versare contributi dopo il 1995 è stato soggetto a regole più severe, sia nei calcoli che nei requisiti di accesso alla pensione. Questo ha generato una differenza concreta negli importi percepiti, con i contributivi puri spesso esclusi dall’integrazione al minimo e da eventuali maggiorazioni.
Invalidità contributiva: cambia tutto sul trattamento minimo
La sentenza della Consulta ha segnato un importante passo avanti, sancendo il diritto anche per i pensionati con invalidità contributiva (ovvero con contributi versati solo dopo il 31 dicembre 1995) ad accedere all’integrazione al trattamento minimo. Una decisione che corregge una disuguaglianza evidente, permettendo a chi percepiva pensioni molto basse — talvolta intorno ai 300 euro mensili — di vedere il proprio assegno allineato al minimo INPS, pari a 603 euro nel 2025.

Va però precisato che il provvedimento non ha effetti retroattivi: la Corte ha stabilito che il diritto all’integrazione vale solo per il futuro, senza riconoscere arretrati. Inoltre, l’applicazione riguarda esclusivamente le pensioni di invalidità contributive e non tutte le prestazioni calcolate con il metodo contributivo puro. Nonostante ciò, si apre uno spiraglio per futuri ricorsi in materia.
Un secondo intervento della Corte è attualmente atteso e potrebbe avere risvolti ancora più ampi, stavolta con possibile retroattività. Il tema è la rivalutazione parziale delle pensioni nel biennio 2023-2024, dovuta al blocco imposto dal governo per contenere la spesa pubblica.
In quel periodo, le pensioni superiori a quattro volte il minimo INPS (circa 2.400 euro al mese) hanno subito un adeguamento all’inflazione ridotto: 85% della rivalutazione per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo; solo il 22% per quelle oltre le 10 volte il minimo.
Il ricorso pendente davanti alla Corte non mette in discussione il principio del contenimento, già ritenuto legittimo in una precedente sentenza. La nuova contestazione riguarda la modalità di applicazione del taglio, ritenuta non progressiva: la percentuale di rivalutazione è stata infatti applicata all’intero importo della pensione, e non a scaglioni, come accade ad esempio per l’imposizione fiscale (IRPEF).
Se la Corte dovesse dare ragione ai ricorrenti, gli effetti potrebbero essere considerevoli. Ricalcolo degli importi per gli anni 2023 e 2024 e riconoscimento di arretrati a migliaia di pensionati.
In questo caso, diversamente da quanto avvenuto con la sentenza sull’invalidità, l’ipotesi di un effetto retroattivo non è esclusa, rendendo l’attesa della pronuncia ancora più significativa per chi è stato colpito dai tagli.